Archeologia della Memoria, a cura di Silvia Bellotti, Galleria Il Bisonte, Firenze (IT)
Architetture / 2024 tecniche miste su piombo, tessuto, cera, fusioni in ottone, 56x75 cm tecniche miste su piombo, tessuto, cera 53x65 cm, 37x42 cm, 48x56 cm, 42x56 cm, 35x54 cm, 40x57 cm
Se dovessimo individuare un’immagine che meglio incarna i mutamenti della condizione umana nella nostra epoca, essa si tradurrebbe senza esitazione – almeno per chi scrive – nella figura del mancino zoppo. Questo personaggio emblematico, tratteggiato da Michel Serres in un testo del 2015 e intriso di profonde risonanze autobiografiche, oltre a incarnare l’entità marginalizzata per eccellenza, l’essere che differisce dalla norma, si erge a simbolo emblematico di una concezione della storia non lineare, un racconto che si dipana in percorsi imprevedibili e discontinui. Le Gaucher boiteux, eroe di quella che Serres definisce come “l’età dolce”, avanza claudicante con passo fragile e incerto su sentieri non segnati, costellati di biforcazioni, deviazioni, smarrimenti e sconfinamenti. Il suo incessante cammino annuncia il tramonto dei grandi paradigmi della modernità, sostituiti da micro-narrazioni frammentarie, monadiche e periferiche, ma non per questo meno significative, atte a definire un mondo in cui nulla è certo ma tutto è immerso in una cartografia del possibile. È proprio questa capacità di leggere e interpretare la dimensione incoativa e potenziale dell’esperienza che anima il lavoro di Friedrich Andreoni e Bernardo Tirabosco. Pur adottando soluzioni formali differenti, entrambi gli artisti convergono nell’intento di decostruire le narrazioni normative dominanti per aprire spazi di riflessione in cui i concetti di identità e memoria si manifestano come territori fluidi e in continua ridefinizione. Attraverso una pratica che potremmo definire archeologica, la ricerca visiva degli artisti abita le pieghe del ricordo, fa riemergere e ordina i frammenti della storia, situandosi nel crocevia tra passato e presente, tra immanenza e trascendenza, tra materia e spirito.
La ricerca di Bernardo Tirabosco è caratterizzata dall’integrazione all’interno del proprio lavoro di diversi linguaggi artistici. Muovendo dalla pittura, che costituisce il fulcro iniziale della sua formazione accademica, la sua pratica si snoda nella ricerca della tridimensionalità scultorea e installativa, mentre l’interesse per la chimica lo avvicina a tecniche processuali come l’incisione e la stampa. Al centro della sua poetica vi è l’indagine rigorosa sui materiali, sulla loro storia e sulle loro potenzialità, che se da un lato si traduce in sperimentazioni di nuove soluzioni tecniche e formali, dall’altro apre la strada a possibili analisi speculative e interpretative. Durante la residenza alla Fondazione Il Bisonte, Tirabosco realizza una serie di tele addizionate con cera d’api, sulle quali stampa a torchio una serie di matrici di piombo sagomate e incise a puntasecca. La disposizione dei frammenti di metallo sul supporto non è casuale, ma intesa a suggerire forme archetipiche, simboli e icone di una spiritualità pagana appartenenti a un’epoca remota e indefinita, che si pongono in dialogo formale con gli spazi della galleria. Questo rapporto con l’arcaico si ritrova nel processo stesso di preparazione della tela, dove l’imprimitura, solitamente impiegata per garantire l’inalterabilità del supporto, assume un significato opposto: la cera lavorata a mano è destinata a mutare sotto l’azione dell’aria e degli agenti, trasformando il suo aspetto nel tempo in una continua tensione verso un divenire altro. L’accostamento tra materiali organici e inorganici, come il piombo e la cera, diventa quindi il mezzo attraverso cui l’artista indaga il rapporto tra permanenza e mutamento, tra atto e potenza, dando vita a un’opera che si pone nel crocevia tra l’essere e il divenire. In questi lavori, Tirabosco gioca ancora una volta a scardinare i confini tra i media: le sue tele abbandonano l’ossatura del telaio restando sospese a pochi centimetri dal muro, dove l’ombra portata sembra ricreare una tridimensionalità impalpabile ed effimera; l’incisione grafica, solitamente associata alla riproducibilità del multiplo, viene negata generando soluzioni formali sempre uniche, mentre la scultura si sottrae a qualsivoglia forma di monumentalità riscoprendo una portata intima e quotidiana. L’artista integra infatti nell’opera la terza dimensione realizzando dei chiodi in microfusione, plasmati sulla base di frammenti appartenenti ad alcune sue sculture. Esattamente come avveniva per le matrici metalliche stampate sul tessuto, i particolari scelti per interagire con le stampe rifuggono consapevolmente qualsiasi intento di rievocazione storica lineare o catalogazione tassonomica, configurandosi, piuttosto, come frammenti emersi da un racconto poetico e misterioso. Una sorta di bestiario magico dove uomo, natura, storia e mito si mescolano e si confondono in una visione trasversale e stratificata dell’esperienza, per immaginare nuove identità e connessioni non sistematizzate.
Se da un lato Tirabosco scava nelle pratiche discorsive della storia privilegiando un approccio empirico, fortemente legato alla poetica del materiale e all’ibridazione tra i linguaggi, dall’altro, la ricerca di Friedrich Andreoni si muove con rigore concettuale, configurandosi come un atto continuo di mappatura, decostruzione, deterritorializzazione e riterritorializzazione della realtà, in grado di mettere in crisi qualsiasi narrazione pregressa. Attraverso l’alternanza e la mescolanza di svariati medium – dalla scultura all’installazione, dal video alla sound art – l’artista mette in scena veri e propri dispositivi di relazione tra oggetti, soggetti, saperi e pratiche che giocano sul confine tra ciò che è e ciò che esiste solo in potenza. Durante la sua residenza, Andreoni ritorna sui temi principali della sua poetica. Come in un album dei ricordi, procede isolando le tracce lasciate dal tempo e le trasforma in immagini statiche, ricordi evanescenti delle persone e delle culture con cui è entrato in contatto.
Il vuoto si configura poi come una presenza tangibile nel video “Loss”, realizzato nel porto di Abu Dhabi nell’aprile del 2020. Davanti a un’inquadratura fissa, un travel lift – la gru utilizzata per l’alaggio e il varo di imbarcazioni – si muove lentamente, svuotata del suo carico, disegnando la curvatura ripida di un arco a sesto acuto che accoglie al suo interno l’orizzonte del Golfo Persico. Questo rapporto tra l’azione e la sua sospensione, tra opera compiuta e astrazione concettuale, viene infine indagato nella serie dei modellini, realizzati sulla base di alcune sculture eseguite dall’artista, che racchiudono tutta la carica dinamica dell’opera ancora in potenza. Declinata su svariati supporti, la struttura esile dell’arco, stabile e fragile allo stesso tempo, rappresenta dunque per Andreoni uno spazio generativo in costante trasformazione, attraverso il quale mettere in discussione l’immutabilità degli schemi visivi e rappresentativi, ricercando – come lo zoppo serresiano – una nuova armonia nello scarto di equilibrio.Il progetto, a cura di Davide Silvioli, porta in esposizione una cerchia di sette artisti, differenti per lessico e riferimenti, parificati dall’impiego di metodologie che sperimentano mezzi, processi, materie e materiali, ora innovativi e ora tradizionali, talvolta ibridandoli, fino a creare nuove destinazioni estetiche, dove la forma, risultando insubordinabile alle prescrizioni canoniche di euritmia e composizione, si apre all’effetto instabile di operazioni che ne alterano e pregiudicano qualsiasi pretesa di compiutezza o ultimazione.
Il titolo della mostra, su questa base, trae spunto dall’aneddoto secondo cui gli scienziati James Watson e Francis Crick, nella scoperta della morfologia a doppia elica della struttura del DNA, sembra furono ispirati da alcuni scarabocchi eseguiti da Crick nel suo quaderno di lavoro. Pur nella sua apparente semplicità, questo episodio racconta molto sulla natura della forma nell’universo molecolare così come in quello della ricerca artistica, racchiudendo la complessità del rapporto fra forma e sostanza, fra forma e ambiente esterno, fra forma naturale e forma artificiale, fra forma e sembianza, fra la forma e la sua percezione.
Pertanto, i linguaggi di Antonio Barbieri, Giulio Bensasson, Roberto Ghezzi, Giulia Manfredi, Miriam Montani, Bernardo Tirabosco, Medina Zabo, con un grado elevato di interdisciplinarità, rappresentano sette ricerche che, pur valutando le rispettive soggettività, argomentano in maniera adeguata e unanime le premesse teoriche della mostra. Scandite lungo le sale del piano terra del Museo, le loro opere, transitando dalla scultura all’installazione fino al video, e sfuggendo a facili nomenclature, forniscono uno scenario sintetico ma esaustivo di come la categoria classica della forma, nel progetto interpretata come il risultato dell’effetto simultaneo – non sempre disciplinabile – di impulsi endogeni ed esogeni, sia tuttora in fase di revisione da parte della contemporaneità.