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Lingua Morta, a cura di Davide Silvioli, Divario Space, Roma (IT)

I Fuochi della Notte / 2023
stampa marmorizzata su tavola
68x65 cm cad. 21,5x21,5 cm, 32x34cm

Il progetto, nonostante la titolazione a primo impatto laconica o addirittura provocatoria, non si inserisce nella retorica, ormai satura, che da circa mezzo secolo si pronuncia sulla cosiddetta vita o morte della pittura.Al contrario, impugnando un insieme di esiti offerti dalla ricerca artistica re- cente, Lingua morta si propone di ipotizzare chiavi di lettura supplemen- tari per comprenderne i modi di adattamento, nel divenire di una contem- poraneità profondamente segnata dal fattore del cambiamento.
Nella fenomenologia delle tecniche artistiche, ugualmente a quanto accade in natura, nulla sorge da niente e niente si estingue mai definiti- vamente, senza lasciare traccia del proprio passaggio. Invero, qualunque pratica di ordine estetico, dovutamente al fatto che può trasformarsi e sublimarsi a seconda delle circostanze operative, non viene mai soppian- tata completamente da un’altra in senso evoluzionistico, poiché il lessi- co artistico odierno rispecchia simultaneamente una pluralità di idiomi, talvolta anche convenzionalmente dissociati. Dunque, in tale contesto, parlare di vita o di morte in riferimento alla pittura risulta inconcludente, perché, non curandosi del crollo dei confini tra gli ambiti artistici, pre- giudica la possibilità di ragionare su quanto vi è di intermedio in questo aut aut. Difatti, è proprio nello scarto causato dalla contrapposizione tra la presunta vitalità della pittura e la sua supposta dipartita, che è possi- bile riconoscere l’ambiente favorevole alla nascita di sue riformulazioni plausibili. Allora, invece di insistere sull’affermazione della pittura o sulla sua negazione, soffermarsi sulle condizioni di sopravvivenza del fenom- eno pittorico, da intendersi come capacità di mutazione dello stesso in risposta a nuovi habitat creativi, si rivela, evitando facili polarità, un approccio disciplinare ben più costruttivo, efficace per profilarlo al pari di una prassi tuttora futuribile. D’altronde, le forme espressive sopravvissute al proprio tempo non sono mai state quelle che si sono trincerate ermeti- camente dietro ai loro codici più convalidati ma quelle che si sono aperte alla contaminazione con le contingenze importate dalla propria epoca.
Pertanto, poggiando su questa premessa, la tesi alla base della mostra mira a evidenziare come una certa dimensione pittorica persista implicitamente nel presente artistico, anche mimetizzandosi in maniera magmatica in procedimenti e risultati quantomai diversificati tra loro ed estranei alla nozione ordinaria di esercizio pittorico. Perciò, quanto può tramutare qualcosa senza che diventi totalmente altro da sé? Per sod- disfare questa interrogazione, la collettiva riunisce lavori che dimostrano di condividere l’indole duttile di una sensibilità, anziché la rigidità di una tematica o una tecnica. Quindi, senza prevedere dipinti, Lingua morta, a partire da una cerchia di realizzazioni di Alessandro Costanzo, Jacopo Naccarato, Francesco Pacelli e Bernardo Tirabosco, è pensata per rac- cordare conseguimenti differenti per soluzioni, metodi, contenuti e lin- guaggio ma che manifestano unitamente, nella resa visiva, la sussistenza di proprietà ascrivibili, per retaggio, alla classe della pittura: gesto, strat- ificazione, chiaroscuro, incarnato, trama. Si tratta di un novero di opere eterogenee nei materiali, ossia grafite, legno, ceramica, oggetto, e nei processi esecutivi, quali disegno, incisione, installazione e scultura, in cui, pur nel rispetto delle singolarità, si rintracciano unanimemente caratteri estetici di discendenza pittorica, utili per poter ricucire, superando antag- onismi semplicistici, la sperimentazione artistica corrente con una delle radici storiche della cultura visuale.
Infine, è chiaro che il titolo della mostra, per immettersi nel già estenuato dibattito sullo stato della pittura con un pensiero alternati- vo, riprende a sua volta parte di quello, ormai inflazionato, del fortunato trattato di Arturo Martini, Scultura lingua morta (1945), seppur l’evento, in controluce, sottenda – forse – il contrario.