Baleno
A cura di Max Mondini, Maggio 2022
Una mostra personale è un evento espositivo in cui un artista espone opere, create dal suo genio, mostrandoci parte della sua visione.
Una mostra collettiva è un evento espositivo in cui più artisti espongono opere, create dal loro genio, mostrandoci una connessione tra le loro visioni.
Baleno, termine in sospensione tra il concetto di luce e di tempo, è una mostra site specific per Spazio Volta, nata dalla volontà di ridefinire tutte queste modalità.
Un’unica forma visiva organica e digitale nella quale non ci sono protagonismi, non ci sono visioni che accomunano… Restano solo le opere. Tre interventi inseriti e concepiti per essere ammirati nell’interezza di un ecosistema.
Scomponendo lo spazio in tre differenti display, con diverse profondità prospettiche e spaziali, la mostra si apre con l’opera di Arianna Pace, un intervento sulla vetrata formato da piccoli cristalli coltivati artificialmente per poi essere applicati su superfici aliene, dove il processo di crescita e decadimento destabilizza la nostra percezione visiva. Una piccola galassia chimica in continua autodeterminazione di se stessa.
Bernardo Tirabosco è la spina dorsale, il punto focale e denso della mostra, su cui tutto si riflette e tutto si condensa. Elementi fisici e al contempo così effimeri, questi monumenti di sapone restano in tensione nello spazio modellandolo con delicatezza. La sua imponenza accetta la contaminazione visiva degli altri interventi, attenuandosi o esplodendo a seconda delle mutate condizioni del giorno.
Il lavoro di Max Mondini, una proiezione digitale sulla parete a chiusura dello spazio, è un attivatore di emotività non sue. Rarefatto al mattino, quasi impercettibile, esso acquista sempre più forza verso sera, dove riprende il suo ruolo di fonte luminosa e invade l’ambiente cambiando colori, atmosfere e percezioni.
Uno e trino, ogni singolo intervento cede ed assimila energia dai restanti due, creando un’atmosfera densa dove lo sguardo non percepisce protagonismi ma un’unica “quarta opera”, somma del tutto.
Perdere qualcosa di noi per lasciare spazio, che inevitabilmente sarà riempito da qualcosa fuori dal nostro controllo.
Soffermandosi ad ammirare questa veduta ci si può rendere conto di appartenerle, senza però poterla dominare interamente.
Tutto questo non ha senso, anche se in fin dei conti, tutto finisce per averne uno.
Sof-fermarsi, Studio Visit #0.1
A cura di Bianca Basile, Febbraio 2022
Soffermarsi. In una parola tre verbi: fermarsi, soffrire e soffiare. La fenomenologia di chi affronta un grosso dubbio consiste in un respiro profondo.
È uno sforzo immenso quello di chi, nel continuo brulichio esterno, intuita una presenza o una mancanza dentro di sé, sceglie di prendersi il tempo e lo spazio per scavare in sé stesso. Attraversando il percorso di risalita dagli anfratti dell’interiorità, il dubbio viene illuminato pian piano e perciò può riservare delle vere
sorprese una volta portato in superficie.
L’oggetto dell’archeologia è una traccia stratificata. Il suo risultato consiste spesso nel ritrovamento di un pezzo che non si sapeva mancante. In questi casi, il rinvenimento fisico dell’oggetto corrisponde alla meraviglia dell’archeologo nel momento in cui scopre qualcosa che non si aspettava.
Il vuoto a volte ci definisce meglio di ciò che ci contiene. Il reperto, l’anello mancante, di frequente non trova mano ad attenderlo. Per lui, il termine “casa” si avvicina più alla buca dove è stato trovato che non alla teca attraverso cui tanti sguardi superficialmente lo toccano, vi entrano in contatto.
D’altro canto è stato fatto spazio per lui, così come per ogni opera, per ogni creazione e creatura su questa terra. Tale spazio è stato creato – coscientemente o no – a sua misura ben due volte: quando è stato prodotto e quando è stato ricollocato. Creare è innanzitutto questo: fare spazio. Rinvenire, ricollocare, rimontare sono partecipi di questa azione reiterata e continua.
Per Didi-Huberman, nell’impronta, l’uomo cerca l’archeologia del contatto tra il Già-stato e l’adesso. Cerca l’accordo tra il simile e il dissimile nel rapporto di memoria tattile tra la forma concava e la forma convessa che l’ha generata.
L’archeologia del contatto è quello che l’artista cerca tra l’uomo e le sue domande. Pur possedendole da empre, nessun individuo ne è cosciente nello stesso tempo e allo stesso modo, perché spesso sono sepolte tra gli anfratti poco percorsi dell’interiorità di ognuno. Tali dubbi, col passare del tempo, prendono il
volume di macigni leggeri, che si sciolgono in schiuma sotto la corrente del frenetico lògos quotidiano, cioè del pensiero logico che dirime le nostre scelte di tutti i giorni. Sono macigni trasparenti, i cui contorni vengono sbozzati nel tempo dall’esperienza individuale. A volte però accade che un evento provochi
un’intuizione, cioè quello che si definisce come pensiero per immagini. L’intuizione genera nel lògos un cortocircuito, un vortice come lo ha ben definito Walter Benjamin. Passato, presente e futuro si mescolano a vicenda, nell’incontro vorticoso delle correnti del lògos e dell’intuizione. Il flusso di coscienza allora fa
emergere i macigni dalle sue profondità. Quindi si esaminano, si prendono le misure, si sagoma il loro profilo, in modo da tenerne traccia e potere fare il paragone con i macigni che scaturiranno dal vortice successivo. I nostri dubbi cambiano insieme a noi. Tenere traccia di come si trasformano le nostre domande sul mondo equivale ad aggiornare nel modo più fedele il profilo di noi stessi, malgrado tutto.
L’archeologia interiore è un lavoro duro, ma la fatica ci porta a respirare forte, ci fa sentire vivi, e lì l’affanno si trasforma in sollievo.
In nessun luogo
A cura di Elena Castiglia, Maggio 2020
“In nessun luogo” è la prima mostra ospitata da Sottofondo studio e occasione per scoprire i nuovi lavori di Bernardo Tirabosco. Per la sua personale l’artista ha elaborato un progetto che si ispira al suo contatto quasi ossessivo con lo studio durante l’anno della pandemia. In una ricerca di rifugio fisico e mentale è emersa la necessità di controllare il proprio spazio, creare un ambiente sicuro, conoscerne ogni angolo. Si è mosso in una dimensione estremamente intima con le sale, diventandone parte e sentendo la necessità di ripensarle costantemente.
Come il personaggio misterioso della Tana di Kafka – nel quale lo stesso artista si è in parte ritrovato – è come se avesse scoperto un po’ di sé nell’osservare il proprio ambiente, ma mai del tutto, sempre insoddisfatto, mai completamente al sicuro. Il legame con la questione spaziale di confinamento ma anche di protezione ha portato l’artista a una decostruzione e ripensamento di elementi architettonici, attraverso un processo quasi scientifico di scoperta di nuovi media. L’utilizzo di varie cromie accese, di sfumature date dai suoi esperimenti sui materiali proiettano in una dimensione ludica ma allo stesso tempo fortemente simbolica. L’ingresso alla mostra porta subito a relazionarsi con i quadri della serie Sintesi (2020) che rimandano a un immaginario quasi botanico, cui fanno eco le piante che li intervallano. Una serie di elementi scultorei, poi, dal titolo In nessun luogo, permettono una rilettura dell’idea di spazio portata dall’artista, attraverso l’uso di un materiale inusuale come quello del sapone e di forme legate alla tradizione.
Completano infine il percorso drappi di tela dalle fantasie astratte che uniscono la pittura all’uso della cera come a voler creare una seconda pelle all’ambiente ma che si impongono come elementi autonomi ed evocativi. Se da una parte l’aspetto di specificità del luogo è stato fondamentale per la nascita di questo processo, dall’altro – come suggerisce il titolo – l’artista ci proietta in una dimensione sconosciuta, che guarda al passato delle forme architettoniche e delle tecniche artistiche ma che non è collocabile in un luogo preciso.
L'arte come scienza poetica
A cura di Tiziana Tommei, Settembre 2018
La prima volta che ho visto alcuni lavori di Bernardo Tirabosco – era una selezione tratta dalla serie di acquetinte – ho pensato di avere davanti un autentico sperimentatore. Uno di quegli artisti capaci di avere il coraggio di gettarsi nella ricerca, con pazienza, credo e abnegazione. Sono passati diversi anni, il mio pensiero non è cambiato, anzi se possibile si è stratificato e concentrato a fronte di un corpus contenuto, ma di inusuale coerenza per un emergente, neo diplomato.
Pittura, scultura, installazione: una versatilità piena, che sottende un’attenzione viva e tenace per la materia e per le reazione di essa all’applicazione di tecniche e studi non solo appresi, ma metabolizzati, assorbiti e tradotti in chiave soggettiva, mai banale – e a tal proposito si prenda a riferimento lavori come “Atom. Sphere” e “Slight Atom. Sphere” (2016). La lucidità e la scientificità con la quale Tirabosco si sta muovendo nella creazione trova corrispondenza nella meticolosa e puntuale ricerca formale che caratterizza in superficie e in sostanza il suo lavoro. In verità, alla base c’è in primis un modo d’intendere e approcciare l’arte capace di fondere due opposti: poesia e scienza. Quando si osserva per la prima volta un suo lavoro si avverte la prima, per poi scoprire che alla base della realizzazione vi sono in realtà ora la chimica, ora la fisica, ora la biologia.
Organismi. Corpi fatti di piombo, legno o carta, ma soprattutto entità derivate dalla combinazione di sostanze e materiali governati da azioni spesso reiterate e costantemente monitorate (in tal senso si pensi alla già menzionata “Atom. Sphere”, ma anche lavori grafici quali “Esoscheletro” e “Carapace”, (entrambi del 2015). Non esiste improvvisazione nella concezione artistica di Tirabosco: ogni sua elaborazione è il risultato di innumerevoli studi, prove e applicazioni. In questa economia, anche le variabili cessano di essere tali nel momento in cui egli porta avanti quella che di fatto è sperimentazione pura, che muove da dettami accademici, introiettati attraverso sapere ed esperienza. Stupisce che tutta questa attitudine alla analisi e al rigore sfoci in una dimensione nutrita di astrazione, lirismo e sogno.
Lavori che calamitano e includono, non raccontano, ma ti avvolgono come una musica cervellotica e densa.
C’è un ultimo aspetto, fondante e da enucleare: la tensione alla terza dimensione. Dai lavori a parete alle tecniche miste, la bidimensione viene sempre scardinata e bypassata in favore di un’orogenesi accennata o di una tensione dinamica sottesa, che corre lungo le corde tese senza mai deflagrare “(In sospeso).” (2017). Non c’è accelerazione, ma ponderata e vigile presenza, a tradire un umanesimo scientifico ancora (e non per molto) in parte in nuce.